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mercoledì 24 febbraio 2010

Brividi blu...altro che Povia

Brividi blu

Tra le molte notizie che confermano il ritorno (ma siamo sicuri che se ne fosse andata?) della corruzione nella Pubblica Amministrazione, ci ha colpito quella che assegna all'Italia il primato mondiale di oltre 626.000 vetture di servizio.
Quella dell'auto blu è questione antica e mai risolta nelle nostre Istituzioni.

Simbolo di quella casta politico-burocratica sempre più inaccettabile ma anche segno distintivo di un'idea ottocentesca di ruoli e funzioni avulse da ogni competenza e capacità. L'auto blu, il parcheggio riservato, il permesso di accesso al centro storico assieme ad altre tessere e tesserine sono i segni distintivi di un potere autoreferenziale e di una idea di "pubblico" inteso più come cosa di qualcuno anziché bene comune.

Rappresentano il primo gradino di quella scala che conduce allo spreco e alla corruzione, oggi riproposti come i tumori maligni che impediscono all'Italia di essere un Paese moderno ed europeo.

Ben vengano, dunque, norme anticorruzione più severe, ben vengano notizie come quella degli oltre 800 provvedimenti disciplinari (licenziamenti inclusi) assunti negli ultimi tre anni dall'Agenzia delle entrate.

Ma nell'opinione pubblica italiana il passaggio dalla consapevolezza delle cose all'abitudine dei comportamenti rischia di diventare un pericoloso automatismo.
Dobbiamo quindi agire per avere Amministrazioni riconoscibili, controllabili e comunicative.

"Più la pubblica amministrazione è trasparente, più la corruzione si marginalizza. Quando vedo chilometri di faldoni  cartacei, penso che lì possa accadere di tutto". Sono parole, assolutamente condivisibili del ministro Renato Brunetta che confermano la validità della linea che i comunicatori pubblici da tempo perseguono: garantire una comunicazione che sia comprensione e non solo conoscenza delle cose.

All'inizio degli anni novanta molti di noi varcarono una porta sulla quale era scritto "come" oggi quella che ci sta di fronte reca la scritta "perché".

I Comunicatori pubblici si sentono pronti a questa nuova sfida e si augurano di avere al loro fianco tutti i veri innovatori.

mercoledì 17 febbraio 2010

Le tre C della nuova informazione

«La radio ha impiegato trentotto anni a raggiungere la soglia dei 50 milioni di ascoltatori. Alla tv ne sono stati necessari tredici. Internet ha toccato quota 50 milioni di utenti in soli quattro anni, e lo stesso traguardo è stato raggiunto dall’iPod in poco meno di tre». Quella a cui stiamo partecipando, volenti o nolenti, è la più grande rivoluzione mai avvenuta nel campo delle comunicazioni. Non solo per celerità (gli anni sono diventati mesi, i mesi giorni, i giorni ore) ma per il radicale cambiamento in atto nell’universo mediatico. Questa mutazione ha un nome e si chiama convergenza.
Convergenza significa che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la vecchia teoria secondo cui in una società la struttura mentale delle persone e la cultura sono influenzate dal mezzo di comunicazione egemone (il famoso slogan di McLuhan «il medium è il messaggio»).
Convergenza è la voce del molteplice, dell’indiscernibile, dell’ibridato. Nel settore delle telecomunicazioni, il cambiamento basilare consiste nel fatto che ciascun medium non è più destinato a svolgere un singolo tipo di prestazione, ma è in grado di diffondere più generi di servizi (radio, cellulare, tv, social network, ebook e altre forme interattive). E se è vero che i media formano nuovi ambienti sociali che includono o escludono, uniscono o dividono le persone con modalità inusuali, è altrettanto vero che i cambiamenti dei media inaugurano rituali inediti, collettivi e personali. A questo cambiamento radicale e globale Massimo Gaggi e Marco Bardazzi hanno dedicato un prezioso libro: L’ultima notizia (Rizzoli), utilissimo non solo agli addetti ai lavori, ma a tutti coloro ai quali sta a cuore la comprensione del presente. Invece di piangere sulla presunta fine dei giornali o sulla crisi della tv generalista o sui pericoli del Web, i due si sono comportati da esploratori responsabili, disegnando varie mappe di una inedita geografia mediatica e antropica, cercando di capire come gli individui si adattino ai nuovi quadri ambientali.

Il ritmo incalzante che i moderni media ci impongono costringe la nostra mente ad adeguarsi, sempre precariamente e provvisoriamente (come nei giochi), a continue novità, a paesaggi diversi, a fabulazioni sconosciute del mondo. Alla generazione Gutenberg, che vanta alcune centinaia di anni di adattamento e di formazione, sta subentrando una nuova generazione, i digital native. Chi sono questi «nativi digitali»? Sono tutti quei ragazzi che sono cresciuti con le tecnologie digitali (computer, smartphone, iPod, ecc...) e che hanno scarsa confidenza con libri e giornali. Non solo: quando hanno un rapporto con l’informazione lo hanno in maniera disinibita, leggono notizie mentre sono impegnati in altre attività (la famosa attitudine multitasking). «Mediamente – scrivono i due autori – si continua a dedicare un’ora di ogni giornata a informarsi ma, rispetto a quanto accadeva anche solo dieci anni fa, quando quel tempo era diviso tra giornale e tg, oggi per le loro informazioni molti ricorrono anche a Internet. E sempre più spesso, Facebook e Twitter diventano, specie per i giovani, porta d’accesso alle news».

Internet ha generato un mutamento culturale di portata epocale. Per la facilità di raggiungere un numero sterminato di fonti, e per l’idea stessa di rete. Noi siamo cresciuti con un concetto di trasmissione del sapere di tipo verticale, strutturato per gerarchie, articolato secondo una concezione piramidale (il sapere è conquista verso l’alto). Il Web ha reso orizzontale buona parte della nostra conoscenza: sulla rete un’opinione vale l’altra, proprio perché è posta sullo stesso piano. La rivoluzione della comunicazione in rete ha posto seri problemi sia agli editori che ai giornalisti. Dopo anni in cui è prevalsa l’ideologia dell’informazione free (sul Web no copyright) si è scoperto che a beneficiare di ingenti guadagni non sono i giornali, ma altri soggetti fino a quel momento sconosciuti al mondo della carta stampata: motori di ricerca tipo Google, portali, provider (più traffico c’è sulla rete più c’è guadagno per i fornitori di servizi). Con la crisi della pubblicità l’informazione non può più essere gratuita.

Il grande problema, che L’ultima notizia affronta con dovizia di esempi, è come far pagare le news. Come sostiene Ton Curley, amministratore delegato di Ap, la più grande agenzia d’informazione d’America, «dobbiamo fare in modo che gli aggregatori di notizie prodotte da altri e tutti quelli che oggi approfittano di una sorta di libertà di plagio smettano di usare questi contenuti in modo abusivo oppure paghino il servizio». Anche per i giornalisti, niente è più come prima. Non tanto per il mito del citizen journalism (l’utente che, grazie alle moderne tecnologie, si trasforma in informatore) che può funzionare bene nei casi di cronaca, negli incidenti, nelle tragedie, ma che rivela tutta la sua fragilità quando si sale di livello e si passa a quello dell’interpretazione.

Con la rete, il giornalista deve reinventare le sue competenze, capire che la convergenza comporta un uso simultaneo di più media (la scrittura, ma anche la radio, il video, eventualmente i social network). Come sostengono Gaggi e Bardazzi, «Internet e i social network hanno fatto emergere quella che potrebbe essere definita la "regola delle tre C" della comunicazione del futuro: condivisione, comunità e conversazione ». Così il libro termina regalando alcuni consigli pratici per cambiare pelle e sopravvivere: il futuro sarà multipiattaforma e l’informazione non sarà più totalmente gratuita; la «purezza » delle rete è un mito da sfatare (i blog possono e devono funzionare da contraltare all’informazione professionistica ma non la sostituiscono); non tutta la stampa è di regime e non tutti citizen journalist che usano Twitter sono santi; la carta deve sapersi fondere con il digitale imparando a raccontare il mondo con modalità diverse da quelle finora utilizzate e insegnate ancora in qualche vecchia scuola di giornalismo.


 
Wordle: dani