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venerdì 29 agosto 2008

E’ stata la giornata dell’Obamità (Obamity)

Dopo tre giorni di complicato orgoglio democratico, di ricostruzione dell’identità di un partito popolare (come molti avevano consigliato), focalizzato sul miglioramento delle condizioni economiche, sulla sanità, sull’ambiente, sulla guerra, su quella che qui si chiama «red meat», carne rossa, è arrivato The One (come lo chiama McCain) e ha proposto la soluzione: i democratici, certo, e se stesso. Un Obama ancora più Obama di quando ha cominciato. Evolutosi, nelle primarie, da idealista-buonista carismatico a candidato divo.

Non solo nel senso hollywoodiano, nel senso della divinità. Condizione a cui in questi mesi ha cercato di avvicinarsi preparandosi più come un atleta new age che come un politico (quelle son cose di cui si occupa il suo socio David Axelrod, e l’organizzatissimo, devoto staff). Si è allenato ogni giorno, si è isolato spesso con l’Ipod, ha lavorato al suo messaggio. Al suo proporsi come uomo-sintesi delle aspirazioni migliori e della ricca e crescente diversità americana. I demo-sauri, i vecchi del partito, gli hanno preparato il terreno. Teddy Kennedy lo ha benedetto. Il suo vice Joe Biden è già partito con i colpi bassi che il principe multirazziale evita. Bill Clinton, contento o no, ha annunciato che (come lui) Barack Obama si trova «dal lato giusto della storia». Una storia con molti lati peraltro, ieri a Denver, e questa è la speranza del candidato e del partito.

C’erano, come previsto, i liberal e i neri, i militari e i pacifisti, e moltissimi americani normalissimi emozionati nel vivere un momento epocale (è epocale comunque vada, è il primo candidato democratico nero). Molti eccitati, alcuni commossi, altri scomposti. Obama, scomposto, mai. Ha sempre avuto idee molto chiare su quanto valeva e dove voleva arrivare. Il primo traguardo l’ha raggiunto. Ha convinto il partito democratico a scommettere su un’idea di presidenza «più ispirazionale che amministrativa». E in un leader più predicatore che politico-tattico (apparentemente). Diversissimo dagli altri leader americani di successo degli ultimi decenni. Elusivo ed elegante come un ologramma su cui proiettare le proprie speranze. O le proprie battute. Scriveva ieri un lettore di Politico.com: «Lo voglio vedere volare sulla folla in toga bianca svolazzante, benedire i fedeli in visibilio, poi fare qualche miracolo, poi salire in cielo con un coro di vergini». Sarebbe un buon colpo per i sondaggi, non sono per niente divini, al momento

mercoledì 27 agosto 2008

Il giudizio morale

Filosofi, psicologi e scienziati cognitivi hanno recentemente proposto varie analisi del giudizio morale. Per esempio Marc Hauser, psicologo di Harvard assai noto, ha escogitato un raffinato esperimento condotto su Internet. Un vagone ferroviario privo di freni corre a ruota libera su un binario sul quale si trovano, ignare, cinque persone. Il soggetto può, se vuole, azionare uno scambio e dirottare il vagone su un diverso binario, sul quale si trova, anche lui ignaro, un grosso ciccione. Il povero ciccione morirà, ma le altre cinque persone saranno salve. In un caso diverso, il ciccione non si trova già sul binario, ma può esservi fatto precipitare spingendolo giù da un ponte sovrastante. Lui morirà, e bloccherà il vagone, e le altre cinque persone si salveranno. Dopo aver ricevuto decine di migliaia di risposte dai quattro angoli della terra, Hauser ha concluso che le intuizioni morali sono universali e innate, indipendenti da età, sesso, credenze religiose e fattori culturali, mentre le giustificazioni per tali intuizioni variano moltissimo.

Questo contraddice l'opinione che le intuizioni morali siano il frutto delle nostre giustificazioni morali. Per esempio, è un'intuizione universale che causare attivamente la morte di una persona (spingere il ciccione sul binario), seppur per buoni motivi (salvando la vita di cinque altre persone) è moralmente più straziante che non sfruttare una situazione di pericolo nella quale una persona già si trova, indipendentemente da noi (azionare lo scambio ferroviario). Un gruppo di teppisti che ha picchiato selvaggiamente un povero fattorino è più riprovevole di un gruppo di astanti che ha assistito senza intervenire a quel pestaggio. Eppure il loro intervento, magari, avrebbe potuto impedire o mitigare il pestaggio.

Vediamo chiaramente che fattori cognitivi e fattori etici si intrecciano intimamente e vi sono, in questo settore, curiose asimmetrie. Se una persona non è stata la causa di un danno o di un misfatto, non la si può moralmente condannare, ma risulta spesso arduo decidere chi o che cosa è stata la causa. Per esempio, se un alto dirigente decide di eseguire un progetto finanziariamente per lui vantaggioso, ma che prevedibilmente inquinerà l'ambiente, verrà da noi moralmente condannato e la sua decisione verrà da noi considerata causa dell'inquinamento. Però, un simile dirigente che, invece, decide di non procedere non viene da noi lodato come meritorio protettore ecologico e la sua decisione non viene da noi considerata la causa della qualità dell'ambiente.

Quindi, i concetti di causa e di conseguenze, per quanto importanti, non bastano a spiegare la diversità di intuizioni morali in casi come questi. Intervengono anche altri fattori cognitivi, come quelli di azione e di omissione, di cosa è normale e di cosa è eccezionale. Tutti questi fattori e i loro intrecci hanno spinto filosofi, psicologi e scienziati cognitivi a vederci più chiaro. Interessanti nuovi dati e modelli matematici, ancora non pubblicati, sono stati recentemente presentati al VI Convegno internazionale di psicologia del pensiero, tenuto a Venezia, dai cognitivisti americani Steven A. Sloman, Philip Fernbach e Scott Ewing della Brown University (Providence, Rhode Island).

Sulla base di esperimenti, modelli formali e dati di imaging delle attivazioni cerebrali, essi sostengono che esistono due distinti momenti: prima noi effettuiamo rapidamente e istintivamente una valutazione (appraisal) morale della situazione, poi intervengono considerazioni soppesate, un ragionamento. E infine formuliamo il vero e proprio giudizio morale. Il conduttore di un'auto che investe un passante è più responsabile se aveva freni inefficienti e lo sapeva che non un conduttore che non ha potuto frenare perché c'era imprevedibile ghiaccio sulla strada. La connessione causale tra freni difettosi e incidente è diversa, nella nostra mente, da quella tra slittamento sul ghiaccio e incidente.

Esistono modelli matematici e programmi di calcolatore che possono ben simulare e far variare a piacere tali connessioni causali, così come la nostra mente se le rappresenta. Si chiamano reti Bayesiane, dal nome del celebre matematico e sacerdote inglese Thomas Bayes, che formulò le leggi probabilistiche delle dipendenze causali intorno al 1760. Sloman e collaboratori le hanno usate per inquadrare esattamente le relazioni psicologiche tra cause, attribuzioni di meriti e colpe e giudizi morali. Una banda di bulli attaccabrighe entra in un villaggio. Un padre mingherlino e un figlioletto attraversano la strada. Un robusto bullo, fissando con arroganza il padre negli occhi, dà un pugno in faccia al figlioletto. Poi dice al padre, con tracotanza: «E adesso, che pensi di fare?».

La nostra reazione immediata, sarà di disprezzo per il comportamento del bullo (prima fase). La seconda fase, probabilmente, sarà di condanna, revulsione morale e rabbia. Una reazione morale ed emotiva. Ma la reazione emotiva non può essere la causa del disprezzo, perché non ci sarebbe stata, se il disprezzo non fosse venuto prima. Nel loro denso e ben argomentato lavoro, Sloman, Fernbach e Ewing considerano fattori cognitivi come azione/omissione, causa diretta e causa indiretta, conseguente prevedibili e imprevedibili, equità (fairness) e iniquità (unfairness), intento e involontarietà, prossimità fisica alla vittima o contatto remoto, lungo complicate reti di connessioni e con connessioni tra queste reti e i giudizi morali.

Un inserviente ignaro lascia sbadatamente su un bancone una polverina venefica che sembra zucchero. Uno studente poi la usa come zucchero e muore. Stesso caso, ma ora chi l'ha lasciata sbadatamente è un biochimico esperto. La differenza morale salta agli occhi. Nel caso del grassone e del vagone, spingerlo noi fisicamente giù dal ponte ci appare moralmente più ripugnante che non azionare a distanza una leva che lo fa cadere sul binario. Curiosa differenza psicologica e morale, difficile da giustificare razionalmente. Cosa si può concludere? Fattori psicologici, per così dire, di pura pelle e poco razionali (spingere giù contro azionare una leva) influenzano le nostre intuizioni morali, che ci piaccia o meno. I giudizi morali sono qualcosa di più della nostra prima e immediata valutazione istintiva, ma emozioni e reazioni viscerali intervengono anche in questi. Infine, fattori cognitivi «puri», come la causalità e la similitudine tra il caso attuale e altri casi già visti, sono necessari, ma non sufficienti, a spiegare i giudizi morali.

Terminerò con un esperimento esemplare e inquietante, dovuto al premio Nobel Daniel Kahneman. In due stanze distinte a due gruppi distinti di soggetti viene chiesto di immaginarsi di esser membri di una giuria che deve decidere quale somma monetaria accordare per risarcimento a una vittima ferita in una rapina a mano armata in un supermercato. Ai soggetti nella prima stanza viene detto che la vittima «si era recata come al solito al supermercato dietro l'angolo». A quelli nella seconda stanza che «la vittima si era recata eccezionalmente in un supermercato fuori zona». Stessa ferita, stesso incidente. Ma, in media, la vittima del supermercato fuori zona riceve dai finti giurati una somma superiore a quella accordata alla vittima nel supermercato consueto. Irrazionale, eppur molto reale. Una di quelle intuizioni a fior di pelle con conseguenze morali. Difficile giustificarla, ma impossibile ignorarla.


 
Wordle: dani